(…) Quando il giovane allievo ebbe finito di ascoltare per la prima volta l’Adagio molto e mesto dal Quartetto Op. 59 N° 1 di Ludwig van Beethoven, la meraviglia fu tale che espresse al suo Maestro il desiderio di riascoltarlo una volta ancora, nella segreta speranza di risentire, una volta ancora, tutte quelle sensazioni e rivedere tutte quelle immagini che mai prima di allora aveva sentite e viste, e che avevano rievocato in lui la certezza di un ritorno alle origini di un universo sospeso… Il dotto Maestro, dopo che l’ebbe ascoltato dall’alto della sua esperienza, rivolse a lui queste parole: “mio caro fanciullo, per comprendere sino in fondo la musica di Beethoven, non basta la fervida e ingenua immaginazione…! abbisogna, di contro, molto studio, una accurata analisi e un paziente, lungo lavoro di ricerca”. Quelle parole gettarono nello sconforto il povero allievo, al quale non rimase altro da fare che seguire diligentemente il severo monito del suo sapiente Maestro: intraprendere la strada di quella sicura conoscenza analitica che lo avrebbe portato, un giorno, a decifrare gli oscuri segreti della musica del grande Genio…! ma egli, in cuor suo, era altrettanto certo che un giorno avrebbe rimpianto quell’atavico, misterioso sentire che lo aveva così sorpreso negli anni della sua fervente e candida innocenza, ormai irrimediabilmente perduta…
da Una antica storia ancora da scrivere
Antonio Puccio
Scrivere sulla vita e sull’opera di un grande compositore è un’operazione piuttosto complessa, soprattutto quando si ha, in qualche modo, la pretesa di volere scardinare quegli elementi che costituiscono la parte più nascosta e misterica della sua arte compositiva, attraverso una scrupolosa ricostruzione biografica dell’uomo e una accurata analisi dell’Opera del compositore.
Scrivere su Beethoven uomo (spesso disperatamente “umano troppo umano”), su Beethoven artista (tanto visionario da sottrarsi a qualunque analisi pragmatica), sulla sua arte compositiva e, soprattutto, su ciò che ha ispirato i suoi capolavori, significa assumere consapevolmente il rischio di intraprendere strade che portano molto lontano dalla sua autentica realtà di uomo e di artista. Il tratto più evidente della personalità di Beethoven, infatti, è una dualità (apparentemente antitetica, ma necessaria) che, da un lato, ha permesso la nascita di capolavori estremi e, dall’altro, ha gettato nella più totale disperazione gli storici e gli analisti della musica di tutti i tempi, intenti a cercare una chiave di lettura per rivelare, dal di dentro, quegli inesplicabili segreti che hanno dato origine proprio a quei capolavori di assoluta bellezza.
L’Ottocento ha avuto urgente necessità di racchiudere in una cornice parzialmente fantastica e grottesca personalità tanto complesse da sfuggire all’umana comprensione: così Goethe (con “Faust”) e E.T.A. Hoffmann poco più tardi (con “Gli elisir del diavolo”) daranno origine al mito del doppelgänger, ossia di quell’altro “se stesso” capace di ispirare la creazione di opere destinate all’immortalità e, proprio per questo, negate al resto dei comuni mortali.
Altri grandi scrittori, sempre in epoca romantica riprenderanno, ognuno a suo modo, tale teoria: Poe, con “William Wilson”, Dostoevskij con “Il sosia”, Wilde con “Il Ritratto di Dorian Gray”, Stevenson con “Lo strano caso del dr. Jekyll e mr. Hyde”. Tutto questo affonda le radici nei due più importanti miti della Grecia classica: Apollo e Dioniso, due figure contrapposte ma complementari, in grado di ispirare un artista nella creazione di un’autentica opera d’arte capace di oltrepassare le barriere dello spazio e del tempo.
Il titolo di questo breve scritto dedicato alla figura di Beethoven, “l’Artigiano Visionario”, nasce dalla convinzione che in Beethoven coesistano queste due distinte e antitetiche figure, proprio come nell’uomo presocratico immaginato da Nietzsche, in “La nascita della tragedia”, dove la prima è capace di manipolare la materia musicale come solo un paziente e instancabile artigiano sa fare, mentre la seconda, preda dell’inquietudine e logorata costantemente da un incessante turbinio creativo, è tutta tesa a dettare con forza implacabile le sue visioni ultraterrene alla mano sapiente del suo umile servitore… La prova più evidente di ciò è testimoniata dalla moltitudine di appunti preparatori che il Beethoven compositore raccoglie con cura, elabora costantemente con maniacale – se non addirittura ossessiva – ricerca di equilibri, ed il Beethoven Visionario pone, infine, come pietre fondamentali sulle quali erigere le ciclopiche e allo stesso tempo raffinatissime architetture delle Sinfonie, dei Quartetti, delle Sonate.
La Sinfonia N° 5 in do minore
I primi abbozzi della cellula ritmica che sarà alla base dell’intera Quinta Sinfonia, risalgono al 1800 circa, mentre l’inizio del lavoro vero e proprio sulla composizione ha inizio nel 1804 e si estende fino al 1808. In questo arco di tempo Beethoven lavora simultaneamente, come è sua consuetudine, al Triplo concerto, al ciclo dei Quartetti Razumowsky Op. 59, al Quarto Concerto per pianoforte, alle Sinfonie Quarta e Sesta, al Concerto per violino e orchestra e, soprattutto, al Fidelio. L’attitudine di Beethoven a lavorare contemporaneamente su più opere è senza dubbio una chiara testimonianza delle sue straordinarie abilità tecnico compositive e, insieme, una disarmante, lucida consapevolezza, della sua inesauribile fonte di ispirazione.
La Sinfonia n. 5 è divisa in quattro tempi distinti per carattere e per struttura, ma accomunati dal persistente ritorno della cellula ritmica iniziale, come a voler simboleggiare che il primo palpito della vita determina irrimediabilmente il suo destino.
Il primo tempo, Allegro con brio, è certamente il brano che più di tutti, sin dai tempi della sua prima esecuzione, desta nell’ascoltatore una profonda sensazione di stupore e insieme smarrimento, a causa delle forze ancestrali che, agitandosi dalle profondità di un mondo sommerso, lottano per emergere ed affermarsi nella luce.
Il secondo tempo, Andante con moto, rappresenta il primo tentativo manifesto di una nuova, conquistata coscienza di sé, dove il carattere, ad un tempo marziale e lirico, disegna i contorni di una entità tesa alla dilatazione degli spazi di un macrocosmo dove è possibile scorgere lontani ma sicuri orizzonti. Il terzo tempo, Allegro, è composto da una efficace ossatura formale, capace di delineare i due aspetti fondamentali e preponderanti di tutta la Sinfonia: un ritmo ossessivo e persistente che determina l’oscillazione del tempo come flusso vitale e un’armonia densa e colorata, in grado riempire gli spazi della memoria. Il quarto ed ultimo tempo, Allegro, è un manifesto di straordinaria coerenza tra forma, contenuto e significati simbolici, dove tutti gli elementi sottesi nei precedenti movimenti, vengono ora portati in superficie e lasciati liberi di esprimere con forza e vitalità la loro dirompente energia.
Sulla Quinta in particolare si è scritto e dibattuto più che su ogni altra opera di Beethoven, e questo sin dai tempi della sua prima esecuzione, avvenuta nel 1808, in condizioni non del tutto felici.
Nella maggior parte dei casi, ciò che si è detto e scritto sul carattere turbolento, sulla sua natura titanica e, in generale, sulla sua forte capacità attrattiva, si riferisce esclusivamente alla sua assiomatica esteriorità e non già al macrocosmo di primitivi e ancestrali richiami di cui la Sinfonia è intrisa e che scuote dal profondo la nostra anima, quasi a ricordarci che il ciclo della nostra esistenza origina dall’eterna lotta titanica tra ordine e caos, e che l’oscillazione costante tra l’uno e l’altro, ci spinge verso un disperante ma fiero anelito alla felicità.
La Sinfonia N° 7 in la maggiore
Uno degli aspetti che più colpisce delle opere di Beethoven è senza ombra di dubbio l’estremo equilibrio tra forma e invenzione e come questo concorra continuamente a far sì che l’ascoltatore non concentri la sua attenzione su un particolare dettaglio, ma lo costringa, al contrario, ad essere coinvolto da un flusso che esprime uno straordinario senso di unitarietà, che è poi il segreto delle opere dei grandi compositori. In questo Beethoven ha molto in comune con Caravaggio: l’evidente brutalità con la quale quest’ultimo tratta i soggetti di molte delle sue tele, è mitigata dall’uso innovativo del colore e dall’incessante, vorticoso ritmo che non consente soste meditative sul singolo soggetto, ma diventa invece l’elemento unificante dell’intera scena, in una sorta di continuo divenire in forma circolare.
Così potremmo dire della Settima Sinfonia, dove l’uso dell’elemento ritmico è spinto fino ai limiti di un parossismo simile a una danza rituale quale mezzo necessario per oltrepassare quella linea di confine e accedere al regno della pura sensorialità.
Il tratto più sorprendente della Settima è rappresentato non tanto dall’uso del ritmo come elemento distintivo a sé, quanto dalla scelta dei temi e delle armonie che assumono forma e colore solo in conseguenza del ritmo che le anima. Potrebbe sembrare una ovvietà, ma osservando lo stesso fenomeno nella Quinta Sinfonia, si nota che la scelta ritmica di fondo – dall’incipit iniziale fino all’ultimo tempo – e lo sviluppo che Beethoven ne fa nel corso dell’opera sovrastano continuamente forma e colore con la violenza di un uragano, sino a frantumarli. La Settima Sinfonia, scritta a quattro anni di distanza dalla Quinta e dalla Sesta, rappresenta una ulteriore significativa trasformazione dell’inarrestabile processo creativo durante il quale Beethoven scrive capolavori come il Concerto N° 5 per pianoforte, il Trio dell’Arciduca, la Sonata per pianoforte “Gli Addii”.
La Settima si apre con una introduzione, Poco sostenuto, piuttosto lunga e magistralmente articolata in una alternanza di zone liriche e levigate, con altre più ruvide e vorticose che ben preparano il primo tempo Vivace, dove l’orchestra tutta è impegnata in una manifestazione rituale che crea cerchi concentrici attraverso un complesso impiego dei processi compositivi. Il secondo tempo, Allegretto, è senza dubbio una delle pagine più ispirate del Beethoven sinfonista, che dipinge qui una tela di straordinaria bellezza e varietà coloristica, esprimendo compiutamente il senso di una solennità insieme intimista ed eroica. Il terzo tempo, Presto, è diviso in due episodi nettamente distinti per carattere e per contenuti: il primo è una sfavillante e spiritata danza con forti richiami ancestrali, dove il rapido alternarsi della melodia tra archi e fiati crea una forte asimmetria nel tentativo di volere sfuggire a se stessa. Segue il trio centrale il quale, diversificando fortemente l’ambito tonale, dà vita ad un canto cerimoniale di ispirazione popolare della bassa
Austria, affidando prevalentemente al clarinetto e al corno una melodia di disarmante semplicità ma di profondi contenuti meditativi. Un Allegro con brio, chiude infine la Sinfonia, suggellandola prepotentemente con una pagina di sfrenata arditezza ritmica, armonica, melodica e formale di straordinaria maestria tecnica e
ed estro inventivo, capace di ruotare vertiginosamente su se stessa grazie all’energia che essa stessa emana.
Vorremmo infine immaginare un artista profondo, complesso e completo come Beethoven, in un lungo percorso artistico in continua evoluzione, in lotta con il perfezionamento dei modelli compositivi e intento a inventarne di nuovi, ma l’analisi accurata delle sue composizioni dimostra, al contrario, che il Beethoven compositore utilizza procedimenti tradizionali, rimodellandoli e rivivificandoli dall’alto del genio creativo che lo accompagnerà per tutto il corso della vita e che sarà il cuore pulsante del suo costante e inarrestabile processo di trasformazione.
Antonio Puccio